mercoledì 7 dicembre 2016

Ora Bersani ci canta la MES (pubblicato su chietiscalo.it il 05/12/2012)

Qualcuno si è ricordato di un mio vecchio articolo del 2012 sul Meccanismo Europeo di Stabilità  non riuscendo, però, più a trovarlo sul sito chietiscalo.it perché in fase di ristrutturazione.
Lo ripropongo qui e, a parte le diverse contingenze storiche, potrete notare come appariva chiaro sin da allora come il MES era ed è un vile strumento di ricatto agli Stati sovrani.
Ricatto che oggi ci arriva direttamente dalla Germania dopo la vittoria del NO al Referendum confermativo della criminale riforma costituzionale.




Ora Bersani ci canta la MES


La modifica art 136 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea ha introdotto il compito della stabilità finanziaria dei Paesi dell'area Euro a cura dell’UE.
Un ampliamento dei doveri-poteri della stessa UE.
Stranamente l'attuazione di questo compito è stata resa operativa da un accordo che istituisce un’organizzazione finanziaria intergovernativa a parte chiamata ESM o, in italiano, MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) i cui soci sono i Paesi dell'area Euro.
Si tratta di una delega non alle istituzioni europee, come verrebbe spontaneo pensare, ma a un’organizzazione a parte che istituisce un fondo “salva-Stati” la cui funzione è di effettuare prestiti ai Paesi in difficoltà finanziarie che li richiedono.
Ogni Stato socio deve versare una quota proporzionale a quella detenuta nella BCE.
I voti che si possono esprimere nell'ambito di quest’organizzazione per la gestione dell'equilibrio finanziario dell'area euro sono proporzionati alle quote effettivamente versate.
Non c'è parità fin dalla sua istituzione, rispetta essenzialmente le forze economiche attualmente in gioco e non i principi di equità sanciti dall'Unione Europea.
L'Italia, per versare nei primi tre anni “irrevocabilmente e incondizionatamente” la prime quote che ammontano a 15 dei 125 miliardi di euro totali (circa il 17% dei totali 700 miliardi in dotazione al MES), ha già fatto ricorso al debito pubblico maturando ulteriori interessi passivi sui “prestiti”.
Si può chiamare “salva Stati” un accordo che ci chiede una cosa simile?
In un contesto di crisi di liquidità quindi, l'Italia si sta indebitando per versare una quota ad un'organizzazione che dovrebbe salvaguardarla dal debito.
In pratica è un incaprettamento, ma il bello deve ancora venire.
Uno Stato che dovesse richiedere gli aiuti al MES, farebbe scattare al suo interno dei piani di finanziamento ad hoc ai quali possono partecipare finanziatori esterni all'organizzazione, evidentemente appartenenti a quella giungla finanziaria che, di fatto, ha generato e tuttora alimenta (artificialmente, ndr) la crisi e, come se non bastasse, anche un margine di profitto per l'operazione (la cosiddetta cresta), il cui limite non è definito, è destinato all'organizzazione.
Se lo Stato non riesce a pagare il debito più gli interessi contratti, il MES prevede una serie di sanzioni finanziarie, ma se lo Stato non ha soldi come fa' a tirarne fuori altri?
Cosa può dare in cambio?
La risposta va da sé: patrimonio pubblico.
A dimostrazione di ciò, infatti, dopo l'approvazione del Fiscal Compact, 50 miliardi di Euro di risparmio l'anno ottenibili da politiche di austerità e tagli, sono cominciati, parallelamente, piani di privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico.
Non è prevista la possibilità di uscita dal MES.
La chicca: Il Consiglio dei governatori e il Consiglio di amministrazione del MES godono di immunità giudiziaria, di immunità di giurisdizione e di inviolabilità dei documenti.
Ma una domanda sorge spontanea, se c'è, qual è l'obiettivo politico di quest’organizzazione?
Nel momento in cui uno Stato richiede un prestito, il MES in collaborazione con la Troika (BCE+FMI+Commissione UE) decide di concedere il prestito soltanto se, in cambio, lo Stato richiedente si attiene a delle norme rigorose da far rispettare al suo interno, ad esempio, com’è avvenuto già in Grecia e Spagna, la Troika ha concesso finanziamenti in cambio di una concessione che le permette di dettare la politica interna, sostanzialmente basata sull'austerità.
Come brillantemente sostiene Lidia Undiemi studiosa di economia e diritto: “I processi democratici sono così diventati oggetto di contrattazione finanziaria”, da ciò se ne deduce che “la Finanza ha in tal modo ottenuto la legittimazione politica totalmente sganciata da qualsiasi tradizionale canale democratico nazionale o europeo”.
Va da sé che anche l'Italia, una volta che ha aderito a un’organizzazione che funziona con queste logiche deve aspettarsi che, oltre l'austerità, essa le detterà anche la politica interna.
Da quando c'è Monti, tuttavia, non è già così?
Il Parlamento italiano, ignorando l'art. 11 della Costituzione che enuncia: “L'Italia ...... consente, in condizioni di parità con gli altri Stati (che non c'è per effetto dello statuto MES, ndr), alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”, in data 19 luglio 2012, nel silenzio assoluto dei media e nell'assenza totale di dibattito pubblico, ha ratificato l'adesione al MES, approvando inoltre il Fiscal Compact una volta introdotto il principio di pareggio di Bilancio in Costituzione.
Anche ai più ingenui si dovrebbe palesare che tale trattato non è “salva Stati” ma “elimina-Stati”.
Quali sono gli schieramenti politici che hanno dato il loro consenso a questo scempio?
Eccoli qua: PD, PDL, UDC più aggregati “spontanei”, Lega contraria, IDV astenuta.
Vada per il PDL in balia del Cavaliere sotto il ricatto dalla Finanza internazionale che gli è costato il premierato, vada per l'UDC del trasformista e montiano Casini, ma il PD che c’entra con i malcelati fini di cui il MES è lo strumento e i principi della Teoria Monetarista che impone austerità e pareggio di Bilancio?
Non mi pare che questa domanda sia stata mai posta nei teatrini televisivi messi su per le primarie.
Bersani, leader confermato a furor di popolo, ha detto anzi che la prima risposta da dare agli italiani qualora vincessero le elezioni è il “la-vo-ro”, uno slogan populista che funziona sempre o quasi.
Anche uno studente al secondo anno di economia comprenderebbe l'assoluta infondatezza e incoerenza di questa posizione.
Infondatezza perché l'austerity anti-keynesiana scelta e votata dal PD è deflattiva, tiene a bada l'inflazione tanto cara ai monetaristi ma riduce il PIL, aumenta la disoccupazione, riduce il gettito fiscale e condanna il Paese che la adotta alla recessione, fino al default se non ha moneta sovrana (“Uno Stato a moneta sovrana non può mai fallire” Bernanke - pres. FED), la storia lo insegna, d’altronde la macroeconomia non è materia per questa generazione di politici.
Incoerenza perché i principi ai quali si dovrebbe ispirare il PD sono quelli socialdemocratici, di matrice marxista, che mettono in primo piano la tutela della società nelle sue massime espressione di cittadino, lavoro, assistenza e servizi nel contesto di una gestione più equa del sistema capitalistico.
Il PD, e questa non è un’opinione ma un fatto appurato, è agli atti del Parlamento, si è fatto complice e promotore (Napolitano) del prodotto più becero e iniquo del capitalismo: la speculazione finanziaria e i poteri forti che la esercitano.
Il PD di oggi si trova alla destra estrema del PCI del compianto Berlinguer, chi lo sostiene con il proprio voto non sembra riconoscere il “finto nemico”, Berlusconi, dal “vero nemico”, l'oligarchia tecnocratica e speculativa europea che sta decretando la fine della democrazia.
Siamo alle solite, non si guarda il meteorite che sta per travolgerci ma il dito che lo indica e, infatti, proprio oggi l'aspirante premier luogocomunista (prof. Bagnai docet) ha dichiarato “Non vedo l'ora di sfidare Berlusconi”(…… ancora ?! ndr).
Sopravvivendo ma anche stonando sobriamente, Bersani ci canti pure la MES.
05/12/12


venerdì 22 luglio 2016

COMMISSIONE AGRICOLTURA - TTIP, audizione Associazione italiana studio asimmetrie economiche

Il 20 luglio scorso a Commissione Agricoltura ha svolto l'audizione dei rappresentanti di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche - nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle ricadute sul sistema agroalimentare italiano dell’Accordo di partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP). Intervenuti i professori Alberto Bagnai (presidente a/simmetrie) e Cesare Pozzi (membro del consiglio direttivo di a/asimmetrie).
Interessanti i dati e gli spunti forniti dai professori che, nel rispetto dell'approccio analitico consono all'associazione che rappresentano, ci prefigurano scenari inaccettabili per noi italiani, come da tempo si intuiva.
Buona visione.




mercoledì 20 luglio 2016

Dittatura degli intelligenti: quelli della megliocrazia - da Il Pedante

Dal blog de Il Pedante prendo a prestito e pubblico questo eccezionale post:


Nella puntata precedente di questa serie, dedicata al declino dell'idea di democrazia nel gradimento delle masse e di coloro che ne orientano l'opinione, ci siamo soffermati sugli attacchi sferrati agli elettori inglesi più anziani che avevano votato affinché il Regno Unito uscisse dall'Unione Europea. In quel caso la stampa aveva utilizzato dati incerti e male interpretati per associare le socialdemocrazie nazionali allo spettro cadente e rancoroso della vecchiaia, da contrapporre alla presunta freschezza giovanile del progetto europeo. Alcuni commentatori, accecati dallo zelo dei giusti, si erano quindi spinti a invocare la revoca del diritto di voto agli anziani, scoprendo così il sostrato predemocratico e totalitario che cova nel pensiero progressista contemporaneo.

In questa puntata proseguiremo nel solco di quella narrazione centrando l'analisi su un'altra virtù cardinale dell'elettore caro all'establishment, di quel καλὸς κἀγαθός europeista e globale a cui occorre conformarsi per non patire l'espulsione dal gregge. Dai resoconti giornalistici abbiamo appreso che egli non è soltanto giovane - o quantomeno giovane dentro, ostando l'anagrafe - ma anche istruito e residente nelle grandi città. Un identikit che, al contrario di quello giovanilista basato su fantasie esegetiche, trova almeno conforto nell'analisi dei voti. Così, ad esempio, nelle recenti elezioni presidenziali austriache il candidato internazionalista Van der Bellen si aggiudicava la maggioranza dei voti dei laureati e degli elettori della capitale - da cui il commento virale del duo comico Gebrüder Moped:

La FPÖ ha perso al voto postale e vuole abolire il voto postale. Prossimi passi: abolizione della maturità classica, di Vienna e delle donne.

Il primo aspetto che ci interessa indagare è il ruolo di queste rappresentazioni nell'orientare l'opinione di un ampio pubblico fabbricandone e celebrandone il primato morale. Il meccanismo manipolatorio agisce su due fronti. Da un lato isola una o più caratteristiche di larga diffusione - l'istruzione superiore, la residenza in un'area metropolitana, la gioventù - e le trasforma in distintivi di appartenenza a una élite sedicente virtuosa in seno alla comunità di riferimento. Dall'altro crea un'aspettativa positiva associando queste caratteristiche a preferenze politiche presentate in termini altrettanto virtuosi - l'internazionalismo, l'europeismo, la "sinistra" - e generando così nei destinatari un obbligo morale ad aderirvi, per certificare la propria appartenenza alla schiera dei migliori.

Il fenomeno sottostante, noto agli psicologi sociali come Effetto Rosenthal o Effetto Pigmalione, descrive la possibilità di indurre i comportamenti e/o le qualità di un soggetto rendendogliene manifesta l'aspettativa da parte di un'autorità o di una guida riconosciuta. Se i giornali scrivono che i cittadini più istruiti votano progressista perché sono saggi, questi ultimi tenderanno ad avverare la profezia votando progressista, sì da essere degni di annoverarsi tra i saggi. Collateralmente anche i meno istruiti, purché esposti alla narrazione, orienteranno le proprie opinioni verso il medesimo standard per assimilarsi ai migliori. In questo modo la descrizione mediatica diventa norma coattiva, avverando se stessa.

In un altro articolo di questo blog (il pedante.org) si è visto come il principale movente politico della vasta e longeva categoria dei moderati non risieda nell'interesse o negli ideali, ma piuttosto in un desiderio di celebrare la propria superiorità aderendo agli standard etico-politici di volta in volta fabbricati e magnificati dagli organi di stampa, cioè dal potere in carica. Si è anche visto come la coltivazione di exempla negativi da cui distinguersi - gli estremisti, i razzisti, i fascisti, i terroristi, gli indifferenti, la pancia degli elettori ecc. - sia strettamente funzionale all'allestimento letterario di quegli standard virtuosi e alla loro imposizione: il terrore di finire dietro la lavagna con il cappello dell'infamia spinge i gregari a suffragare qualsiasi atto, anche il più atroce. È il terrore atavico dell'esclusione dal branco, la cui urgenza irrazionale diventa strumento di propaganda e di sottomissione in quanto prevale sugli interessi dei singoli, anche i più legittimi, e li annulla nell'imperativo di un presunto bene spersonalizzato e comune - cioè del personalissimo bene di chi detta le trame ai giornali.

Ai mezzi di informazione spetta il compito di alimentare questa aggregazione autocelebrativa coltivando simboli, mode, antagonismi e dibattiti che, per aggredire i gangli prerazionali del target, devono affondare la loro suggestione negli archetipi più radicati e ancestrali. Limitandoci al caso qui analizzato, la dialettica centro-periferia allude, sotto l'apparenza asettica del dato demografico, alla connotazione morale e intellettuale dell'urbanitas latina in quanto eleganza di modi e di eloquio e "tacita erudizione acquisita conversando con le persone colte" (Quintiliano, Inst. orat. VI III 17), da contrapporre alla grezza rusticitas. Se città e civiltà condividono il medesimo etimo (civitas), la villa (cascina, podere e, per sineddoche, la campagna tutta) partorisce non solo il villico, ma anche il villano e l'inglese villain, cioè l'antagonista, il malvagio, l'irredimibile cattivo delle fiabe.

In quanto all'istruzione, il suo riflesso positivo e condizionato ha una radice quantomeno duplice. Da un lato rimanda anch'essa alla celebrazione classica dell'erudizione e, per successiva approssimazione e sovrapposizione semantica, alla sapientia della pneumatologia cristiana che in origine identifica discernimento e saggezza. Che i dotti debbano avocare a sé la guida delle cose pubbliche era già in Platone, là dove contrapponeva alla democrazia ateniese la sofocrazia, il governo dei filosofi e dei sapienti. Dall'altro, l'attenzione al grado di istruzione innesca un automatismo pedagogico che rispecchia l'infantilismo coltivato dai media e dove la qualità degli individui è misurata in termini di diligenza e non di intelligenza. Sicché lo studente/cittadino meritevole è quello che ascolta la maestra, passa gli esami e consegue il titolo di studio, così come il politico buono è quello onesto che si attiene alle regole senza metterle in discussione, il lettore buono è quello che ripete tutto ciò che legge sui giornali e il popolo buono è quello che fa i compiti a casa di merkeliana memoria, senza interrogarsi sulla bontà del progetto politico sotteso.

Il successo di questa articolata captatio benevolentiae è tale da suscitare non solo l'autocompiacimento dei suoi destinatari - sì da renderli argilla nelle mani del manovratore di turno - ma anche un odio acerrimo verso chi non si conforma allo schema. I moderati, nonostante rappresentino di norma la maggioranza dell'elettorato (diversamente il potere non se ne curerebbe), amano immaginarsi come uno sparuto manipolo chiamato a difendere la fiamma della civiltà dai barbari. La loro forza sta nella paura, e la paura genera odio. Sicché, nei rari casi in cui la realtà non si conforma alle loro aspettative, si scagliano con la cecità del branco contro chiunque ardisca trasgredire il catechismo impartito dai loro giornali. Ecco l'attempato dandy dell'ultraeuropeismo, Philippe Daverio, commentare la vittoria del Brexit dalla sua pagina Facebook:

Nell'Inghilterra colta la voglia d'Europa si è confermata, in quella dove gli anziani e le anziane sdentati preferiscono una cassa di birra alla cura dal dentista, l'Europa perde.

Un disprezzo iperbolico e gratuito, una polarizzazione puerile tanto più bizzarra in quanto espressa da un tizio che non ha mai preso una laurea. L'esito, fin troppo prevedibile e antico, è il classismo, la sbobba dialettica di chi non potendo dimostrare la propria superiorità si illude di affermarla postulando l'inferiorità degli altri.

Come si è visto nella puntata precedente, dalla squalificazione antropologica alla negazione dei diritti il passo è breve, brevissimo. Il subumano va arginato e interdetto per il bene di tutti e in deroga a tutto. Leggiamo Massimo Gramellini, il direttore de La Stampa, che rompendo ogni indugio porta l'attacco al cuore del dogma democratico:

La retorica della gente comune ha francamente scocciato. Una democrazia ha bisogno di cittadini evoluti, che conoscano le materie su cui sono chiamati a deliberare. La vecchietta di Bristol sapeva che il suo voto, affossando la sterlina, le avrebbe alleggerito di colpo il portafogli, dal momento che i suonatori di piffero alla Farage si erano ben guardati dal dirglielo?

Ecco, Gramellini si è scocciato del popolo. E nell'esprimersi con fastidio aristocratico per la "retorica delle gente comune" promuove evidentemente se stesso al rango della gente speciale e dei "cittadini evoluti". A che titolo? E chi ve lo ha eletto? Non ce lo spiega, né soprattutto spiega che cosa ci sia di speciale in un'opinione ragliata all'unisono da tutti i maggiori mezzi di informazione. Del resto la sua missione è un'altra: quella di rendere dicibile l'indicibile - la revoca del suffragio universale - e di gettarne il tarlo nelle docili testoline dei suoi lettori, così da prepararli ad applaudirne l'avvento e illuderli che, quando ciò accadrà, loro non ne saranno colpiti trovandosi al sicuro sulla sponda dei giusti.

lunedì 4 aprile 2016

Un servizio RAI raccontò tutto alle tre del mattino nel 2013, è' spiegato tutto benissimo, da vedere assolutamente:


venerdì 11 marzo 2016

Dei moderati

In questo diario di bordo, temo sempre più simile a quello del Titanic, non posso non pubblicare un fantastico post de Il Pedante tutto dedicato ai moderati o comunque a coloro che si ritengono tali, facendosene un vanto perché tutto sommato la posizione assunta gli ha "mediamente" garantito una vita "mediamente" gradevole o "mediamente" di successo o "mediamente" apprezzabile. D'altronde chi è al potere ha sempre invitato il popolo alla moderazione, incarnandola nella virtù prima di un popolo "maturo".
Il Pedante ci spiega che così non è.
Buona lettura.


I moderati sive de grege  de Il Pedante


Wenn alle das gleiche denken, denkt keiner richtig. (Georg Christoph Lichtenberg)

C'è un paradosso. Che quasi tutti gli eventi più estremi e sovversivi degli ultimi 150 anni di storia nazionale hanno contato sull'appoggio sicuro del cosiddetto pubblico moderato. I moderati: quelli che hanno applaudito i colpi di stato (la Marcia del '22, la cacciata del governo nel 2011), che acclamano le guerre (prima e seconda mondiali, regionali in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia), che accettano la tortura (le camicie nere, i manganelli di Scelba, la macelleria del G7), la discriminazione (gli ebrei prima, gli islamici poi) e le tirannidi purché amiche. Quelli che giustificano le scorciatoie dell'uomo forte al comando, subordinano i diritti e la dignità dei popoli alle favole economiche, sempre pronti a sottoscrivere deroghe allo stato di diritto in nome di un'emergenza (?), che spalancano le porte all'ingerenza straniera e sognano la dissoluzione dello Stato nazionale nell'abbraccio servile con le altre nazioni: Berlino, Washington, Bruxelles o - come oggi - tutti e tre assieme.

Giudicando gli esiti, i moderati sono tutto fuorché moderati. Dunque perché li chiamano così? Innanzitutto perché a loro piace farsi chiamare così. La moderazione - o temperanza, σωφροσύνη, (aurea) mediocritas - è da millenni tra le virtù morali prescritte ai saggi. La lodava Aristotele nell'Etica Nicomachea, la raccomandava Cicerone nel libro sui doveri (De Officiis) e Tommaso d'Aquino ne fece una virtù cardinale del Cristianesimo. Sicché attribuire all'interlocutore il pregio della moderazione equivale a concedergli le insegne della saggezza e della rettitudine, con l'effetto - e quasi sempre anche l'intenzione - di blandirne l'amor proprio per guadagnarne l'assenso. In quanto al messaggio, poi, poco importa se sia davvero moderato e non viceversa foriero dei succitati cataclismi. Anzi, quanto più è estremo tanto più è d'uopo la captatio benevolentiae, via obbligata per carpire la fiducia dei semplici.

La moderazione ha un altro vantaggio per chi manovra il consenso. È un'etichetta vuota, una connotazione relativa che rimanda a un riferimento non dichiarato in modo da accomodarsi secondo la suggestione di ciascuno. In fondo, dirsi moderati senza specificare rispetto a cosa è come definire una lunghezza come il doppio della sua metà. Non dice nulla se non il bisogno di affermare il proprio equilibrio e la propria presunta superiorità e distanza rispetto a un'altra categoria ugualmente vuota ma specularmente infamante: l'estremismo.

Manipolare l'opinione di chi ama qualificarsi come moderato è quindi semplice: basta fissare d'ufficio gli estremi della dialettica con la certezza che il soi-disant moderato vi si collocherà disciplinatamente nel mezzo, in perfetta equidistanza dalle sponde. In questo modo il messaggio che si desidera accreditare non ha bisogno di essere esplicitamente asserito - come accadeva e accade nei regimi manifesti - ma è suggerito per induzione. Se volessimo far sì che il moderato pensasse al numero 8, gli diremmo di sceglierne liberamente uno tra 4 e 12. E lui cascherebbe prevedibilmente nella media:
Nella realtà, lo spin doctor accorto sa che si deve ridurre il più possibile la distanza tra gli estremi, per evitare un'eccessiva libertà di pensiero e la dispersione delle idee rispetto all'esito prestabilito. Il che spiega l'odierno Drang nach der Mitte, la centrizzazione del pensiero dove i cosiddetti estremi si qualificano sempre più come caute sfumature di un'opinione unica e centrale. Ad esempio, chi oggi chiede di tutelare la sovranità nazionale passa per nazionalista di ultradestra, mentre chi vorrebbe qualche protezione in più per i lavoratori è un comunista. Si tratta chiaramente di rappresentazioni parossistiche e strumentali al mainstream, laddove il vero estremismo è casomai quello di chi non riconosce in queste richieste un invito al rispetto della legalità costituzionale.

Il cosiddetto centro non è che lo stesso concetto di moderazione applicato ai movimenti politici. Ugualmente privo di significato in sé e ugualmente estremo negli atti, vive di ciò che i commentatori - cioè gli influencer - politici definiscono di volta in volta come massimalista. E poiché nessuno vuole portare l'onta dell'estremismo, tutti si accalcano verso il punto centrale di un recinto sempre più stretto - quello del pensiero unico - mentre il dibattito politico si riduce all'irrilevanza dei simboli e del gossip, in una bassa democrazia che discute del colore e della forma del cappio a cui andrà ad appendersi.

Tra i tanti esempi applicativi di questa tecnica di manipolazione di massa mi sovviene una prima pagina del 2003, all'alba della seconda guerra del Golfo. In un'Italia tentennante tra interventismo e astensione (essendosi in realtà già deciso altrove per la prima opzione), mi imbattevo in un doppio editoriale dal titolo "Opinioni a confronto". Qui il primo articolista sconsigliava il ricorso alle armi proponendo di limitarsi (!) a un inasprimento delle sanzioni contro l'Iraq, mentre il secondo invocava una più esemplare azione di forza punitiva. La dialettica era naturalmente falsata e unilaterale: entrambi gli articoli accettavano infatti la necessità di colpire duramente uno stato sovrano, cosicché al moderato non restava che posizionarsi nello stretto margine tra l'estremo e il più estremo, escudendo dal suo orizzonte intellettuale l'ipotesi stessa di non infliggere sofferenza e caos a milioni di persone innocenti. Che poi sarebbe il minimo per chi coltivasse davvero la virtù della moderazione.

La complessità mentale del moderato è quella di un organismo monocellulare. Prevedibile e manovrabile al millimetro, ha l'ulteriore vantaggio di prediligere la cosmesi del simbolo rispetto agli atti. Plasmato da decenni di retorica, egli si pasce di suggestioni, rappresentazioni e slogan, minimizzando così lo sforzo di chi si candida a manipolarne l'opinione. Un tailleur, un loden, un discorsetto sui diritti gay e un eloquio pacato valgono più di mille cronache per accendere in lui l'illusione di un equilibrio sobrio e meditabondo. Al contrario, uno scampolo di turpiloquio, un'intemperanza o una deviazione sia pur minima dal conformismo etico e parolaio dei più lo fanno gridare all'estremismo, purché opportunamente serviti con contorno di editoriali salottieri e distaccatamente indignati.

Una volta confezionato per via mediatica, l'estremo da cui rifuggire si trasfigura nella suggestione dell'opinione moderata in esiti apocalittici e spaventosi. Esiti di cui ovviamente non c'è traccia nella realtà e che pertanto ne travalicano i confini lambendo i territori dell'incubo e del grottesco: "Di questo passo - chiosa il benpensante - dove andremo a finire?". Nel suo microcosmo culturale gli euroscettici sono folli promotori di un'Europa fratricida e pronta a ripetere i massacri delle guerre mondiali, chi mette in discussione la moneta unica un pericoloso fomentatore di miseria e inflazione a due cifre, chi critica le politiche migratorie un nostalgico dei muri spinati di Auschwitz, chi si oppone alla privatizzazione e liberalizzazione di tutto uno stalinista nemico della libera iniziativa economica, chi fa politica dicendo le parolacce un ambasciatore di barbarie, chi declama il primato della famiglia tradizionale un bigotto à la Torquemada, chi si interroga sulle vaccinazioni un untore, chi denuncia le politiche israeliane un antisemita, chi predilige i prodotti nazionali un autarchico ecc. A conferma del fatto che il moderato è necessariamente - non eventualmente - un estremista, in quanto appunto allevato nella rappresentazione ossessiva dell'estremo.

Come tutti i pensatori elementari, il moderato avverte il bisogno di dare un volto alle sue paure. Egli cerca il cattivo per conferire senso alle vicende del mondo, siccome l'orco e la strega danno senso alle fiabe. E i fabbricatori dell'informazione lo sanno bene, e sono più che pronti a soddisfarne la fame di orrore: con i Salvini, le Le Pen, i Gasparri, gli Orban, i corrottissimi autarchi delle steppe, i satrapi dissoluti del continente nero e gli sceicchi del terrore da mille una notte. Una galleria sinistra e letteraria popolata non dai protagonisti di storie da approfondire, ma da personaggi che incarnano l'estremo in quanto oggetto da odiare, mostri mitologici messi a guardia di un recinto mentale che non va oltrepassato affinché il gregge non si disperda nei pascoli del libero pensiero.

In questa allegoria i fatti si annullano e più spesso si ribaltano, essendone l'occultamento uno dei fini. Nelle presidenziali americane in corso il cattivo è Donald Trump: perché è intemperante, aggressivo e razzista. Il che è probabilmente vero, ma vieppiù inquietante è il fatto che la sua rivale, la signora Clinton, sia invece accreditata dall'opinione pubblica come il polo moderato della sfida. Mettendo così sullo stesso piano le sparate verbali di un Berlusconi al cubo con i fatti atroci e documentati ascrivibili alla cinica ambizione della donna. La stessa che dopo avere votato l'invasione dell'Iraq con un pretesto consapevolmente falso e lasciando sul terreno un milione di morti, nel 2011 si è fatta principale sponsor politico dell'intervento in Libia, ribattezzato dai giornali Hillary's war: la guerra di Hillary. Anche qui persero la vita decine di migliaia di persone innocenti e un paese florido e politicamente stabile fu devastato e consegnato all'anarchia. E lei? Se ne vantò ridendo in prima serata: "We came, we saw, he died". Si scoprì poi che tra i fini della moderata Hillary, l'amica dei moderati italiani che ride della morte altrui, c'era anche quello di strapparci con le armi le concessioni petrolifere in Libia. Ma la signora è donna, si dice democratica e comsopolita e dispensa carezze alle portoricane del Queen. E tanto basta per sostenerla.



Il caso - e i moltissimi ascrivibili allo stesso paradigma - rivela un aspetto centrale della psicologia dei moderati, cioè l'inclinazione ad anteporre nella gerarchia dei pensieri le conseguenze immaginabili dei fatti ai fatti stessi. Ciò preoccupa perché integra una forma di alienazione o paranoia collettiva dove i diritti dell'immaginazione prevalgono sulla realtà e la potenza sull'atto. Mentre si chiedono angosciati di che cosa sarebbe capace un Trump, non si curano di ciò di cui è stata capace Hillary. O per fare un esempio a noi più vicino, mentre paventano le conseguenze di un'uscita dell'Italia dal baraccone europeo, non registrano che quelle stesse conseguenze - disoccupazione, diminuzione del potere d'acquisto, instabilità finanziaria, insicurezza dei risparmi, cessione di asset nazionali, delocalizzazioni produttive, emigrazione giovanile, aumento del debito pubblico, conflittualità tra gli Stati ecc. - si stanno verificando dentro l'Unione e a causa dell'Unione. Il moderato non è programmato per i fatti e non impara nulla dalla storia, neanche quella a lui contemporanea. A tutto vantaggio di chi lo manovra, che non potendo alterare gli eventi storici può invece comodamente scrivere e riscrivere le fantasie che lo orientano nel giudizio.

Spesso mi sono chiesto quali siano i moventi psicologici che spingono i sedicenti moderati a dichiararsi tali e a sottoporsi a un processo di manipolazione così umiliante. Oltre al già detto bisogno di affermare la propria degnità morale, la risposta credo sia da cercare nella qualità estetica dell'apparato mediatico che sostiene l'operazione. I protagonisti e le istituzioni dell'opinione moderata - i quotidiani storici, i salotti televisivi, le firme di Mieli, Mauro, Severgnini, Scalfari, Romano, Galli della Loggia, Ostellino e i volti di Vespa, Fazio, Floris, Mentana e mille altri, se non tutti - incarnano un rassicurante cliché altoborghese che non ha mai smesso di affascinare la nostra classe media. Un cliché senza tempo sotto i cui abiti di sartoria pare indovinarsi una cultura profonda ma non esibita, una proprietà di giudizio che si impone senza urla né insulti, una signorilità indulgente che sa sorridere delle debolezze umane. Ma soprattutto, il savoir-vivre degli uomini di mondo che con accorta eleganza scivolano da un sistema di potere all'altro senza sporcarsi il vestito e cadendo sempre in piedi, quasi appartenessero a una civiltà a sé che trascende gli accidenti storici e se ne immerge senza corrompersi. Ciò che qualcuno - incluso chi scrive - definirebbe prostituzione intellettuale è invece per molti un modello di realizzazione personale e sociale da imitare: di chi si piega (al padrone di turno) ma non si spezza.

Il moderato è quindi all'origine un conformista nel senso pieno del termine, in quanto desidera appunto conformarsi all'asettico decoro stilistico e materiale dei sempre-amici del principe, dei quali riconosce solo strumentalmente - cioè per viam imitationis - anche l'autorità intellettuale. Perché in fondo non vuole essere, non cerca un'identità propria. Vuole anzi non essere: provinciale, razzista, fascista, immaturo, populista, omofobo, impulsivo, semplicista, italiano-medio e insomma tutto ciò che nella vulgata del momento lo distinguerebbe dal modello astratto a cui occorre uniformarsi per non stonare nella mandria dei "buoni".

La fortuna di questa operazione di marketing mediatico e sociale non ha mai conosciuto crisi. Dall'Unità nazionale ad oggi vi si è coltivato un serbatoio di consensi a cui i potenti di turno hanno attinto per legittimare se stessi e i loro atti, anche e soprattutto i più osceni. Un serbatoio di consensi pregiati, perché espressione delle classi mediamente più colte e facoltose, le stesse che amano informarsi e dibattere, diffondere le opinioni e dare vita a movimenti, iniziative a supporto di un'idea e finanche scrivere libri. Non stupisce allora che i partiti politici e gli organi di informazione si contendano l'etichetta di moderati e l'attenzione di quel pubblico: perché i moderati sono la spina dorsale del potere, gli utili inconsapevoli sempre pronti a reggergli il gioco. Qualsiasi gioco.

Alcuni giorni fa il Corriere della Sera, organo indiscusso della categoria qui descritta, ripubblicava in occasione del 140° anniversario dalla fondazione il celebre editoriale di Eugenio Torelli Viollier "Al pubblico" apparso sul numero 1 del giornale. Rileggerlo oggi fa quasi spavento. La parola "moderato" vi appare 12 volte e, se non fosse per la prosa datata e i diversi riferimenti storici, potrebbe essere stato scritto ieri. Qui c'è già tutto.

La captatio benevolentiae:

Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua educazione politica è matura. L’arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio.


L'epica dell'austerity:

Come il cavaliere templario della ballata di Schiller, il partito moderato mosse diritto al mostro del disavanzo, con un mastino al fianco. Questo mastino si chiamava l’Imposta – bestia ringhiosa, feroce, spietata; ma senz’essa era follia sperare di vincere. L’Italia unificata, il potere temporale de’ papi abbattuto, l’esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio, – ecco l’opera del partito moderato.


La fregola di congiungersi con i popoli tedeschi:

In grazia loro [del Governo] si è udito Francesco Giuseppe d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli».


Il fastidio per la democrazia:

E però ci accade [...] di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.


Ma soprattutto, la definizione più precisa e rivelatrice dell'ethos politico moderato: essi sono "conservatori prima, moderati poi", appartengono cioè

al partito [...] che ha avuto finora le preferenze degli elettori, – e per conseguenza il potere. Questo partito cadrà un giorno, perché tutto cade, tutto passa a questo mondo...


... ma non i moderati. Loro sono ancora qui, eterni anche nel nome, sempre pronti a schierarsi con il più forte, fieri di essere servi e penosamente illusi di custodire la coscienza civile di questo Paese.

Come si fa a non disprezzarli?

lunedì 4 gennaio 2016

Le responsabilità della Germania, e quelle degli Stati Uniti (di Alberto Bagnai)

Ecco a voi un interessante riflessione geopolitica di Alberto Bagnai, tratta dal suo preziosissimo blog Goofynomics.



Nei finti stati federali di derivazione anglosassone (Stati Uniti d’America, Canada, Australia…) ultimamente si porta molto l’idea secondo cui la Germania dovrebbe finalmente prendersi le sue responsabilità di leader regionale, e laddove non lo faccia, sarebbe sua la colpa del fallimento del progetto europeo.

Una variante del tema “Germania cattiva” caro alle nostre élite, le stesse per le quali fino a ieri la Germania era un esempio.

Volete esempi di questo atteggiamento?

Qui trovate un illustre esempio a stelle e strisce, e qui un meno illustre, ma ugualmente interessante, esempio a stelle e Union Jack. Notate che quando parlano di uccisione del progetto europeo (come Kruggy) o di proposte antieuropee (come Billy) i simpatici anglosassoni partono, nemmeno troppo implicitamente, dall’ipotesi che questo progetto sia valido, che ostacolarlo sia un errore. Un’ipotesi che alcuni di loro (in particolare Kruggy) in altri tempi hanno dimostrato essere falsa, ma attenzione: qui non è nemmeno un caso di rivolgimento di gabbana come quelli che stanno costellando le nostre cronache (le alate parole postume di Sforza Fogliani contro l’Europa, con annesso elogio di Padoa Schioppa, le avete lette? Un altro di quelli che finché toccava a noi stava zitto…). No, gli illustri colleghi non sono voltagabbana: è proprio che non ci arrivano. Non riescono a capire che i 28 Stati dell’Unione Europea non potranno mai federarsi come i 7 “stati” australiani o i 50 “stati” che compongono gli USA. La differenza fra uno Stato europeo e uno “stato” di una pseudo-federazione anglosassone è molto semplice, e l'ha detta una forza alla quale né io né voi né nessun altro può opporsi: quella della storia. Gli Stati europei sono caratterizzati da identità nazionali più o meno forti, costruite, fra l’altro, aggregando con metodi che sappiamo una serie di identità territoriali (e in qualche modo esse stesse nazionali) subordinate. Gli “stati” come il Wisconsin o Queensland sono (macro)regioni di uno stato nazionale dalla forte identità fortemente condivisa (lingua inglese, common law, ecc.), costruita in tempi recenti facendo tabula rasa di tutto quanto si trovasse sul territorio di insediamento. Cosa ciò comporti in termini di integrazione fiscale (e quindi di sostenibilità di una moneta unica) per gli Stati Uniti dovremmo saperlo perché ce l’hanno spiegato Bayoumi e Eichengreen (1992). In Australia le cose vanno così: alcuni australiani (ovviamente non quelli che ci guadagnano) non sembrano entusiasti né del loro federalismo orizzontale, né di quello verticale, ma resta il fatto che per un abitante del Queensland un abitante della Tasmania è meno straniero di quanto lo sia un portoghese per un lettone.

Ci siamo?

Ecco.

Questo i simpatici anglosassoni proprio non lo capiscono, e quindi proprio non si rendono conto del perché la Germania non voglia cooperare. La limitata capacità di comprensione sfocia sempre nel moralismo, e quindi eccoli lì, i nostri simpatici abitanti degli Stati Uniti d’America o del Commonwealth degli Stati Australiani, col ditino puntato verso la Germania (ah, i ditini!...).

Ma, scusate, se proprio di responsabilità dobbiamo parlare, allora facciamolo fino in fondo.

Perché se si chiede alla Germania, come leader politico regionale, nonché gestore tramite l’UE delle regole di governance europee, di prendersi le sue responsabilità favorendo l’evoluzione delle regole fiscali europee nel senso di una maggiore integrazione (e quindi solidarietà), corrispondente a quanto razionalmente occorre per la sopravvivenza di una unione monetaria, allora si dovrebbe anche chiedere agli Stati Uniti, come leader politico mondiale, nonché gestore tramite il FMI del sistema monetario internazionale, di prendersi le loro responsabilità, favorendo l’evoluzione del sistema monetario mondiale verso un assetto più razionale. E la razionalità del sistema monetario internazionale punta in una direzione indicata dalla storia e dalla logica economica: quella di una maggiore flessibilità (incidentalmente noto, non me ne vogliano gli idealisti a pancia piena, e nemmeno quelli a pancia vuota, che sarebbe strano che storia e logica economica fossero ortogonali).

Insomma: questa merda di sistema l’hanno voluta gli Stati Uniti, ce lo siamo detto e ridetto. Bene: ora che non funziona, ed è evidente che non funziona, dovrebbero essere loro a prendersi la responsabilità di smontarlo, invece di giocare a scaricabarile con la Germania, le cui responsabilità sono evidenti, ma che è comunque uscita dalla Seconda guerra mondiale come paese sconfitto, e fino al 1999 si è mantenuta sostanzialmente subalterna (come a sconfitto si conviene).

Ma questa riflessione nessuno la fa mai, e nessuno pone mai questa domanda.

Nessuno?

Non è esatto. Come abbiamo visto (e lo avremmo comunque intuito anche senza che ce lo dicessero), quando si trattò di salvare la Grecia, stanziando 110 miliardi di euro (perché la situazione era stata lasciata incancrenirsi a sufficienza), al FMI volarono stracci fra gli USA, che volevano tenere i cocci dell'Eurozona insieme per motivi geopolitici,  da una parte, e Brasile e India dall'altra. A indiani e brasiliani della geopolitica del Mediterraneo non gliene importa una beata fava: è il laghetto dove gli USA si trastullano con le loro naumachie, mentre 110 miliardi, inutile negarlo, son bei soldi! Sai quanti Risiko ci compri? Al prezzo attuale, circa tre miliardi: uno ogni due abitanti del pianeta. Hai voglia a gioca’!

Peraltro, un appello alla responsabilità degli Stati Uniti come gestori del “non sistema” monetario internazionale lo aveva emesso anche uno de passaggio, il governatore della PBOC, quando nel 2009 chiese agli Stati Uniti di convocare una nuova Bretton Woods.

Bene: se le cose vanno male qui in Italia, e se veramente dovrà arrivare la troika, il buco da tappare sarà più grande che in Grecia, ci siamo? Ecco: allora immaginatevi un po’ voi come si metterà fra gli Stati Uniti e i BRIC, soprattutto considerando un fatto ormai conclamato: il fatto che questi salvataggi non salvano nessuno, cioè il fatto che i finanziamenti erogati sono a fondo perduto (o meglio: trovato nelle tasche tedesche…). A un brasiliano quanto glie ne può fottere di mettere i soldi per salvare le banche tedesche affinché l’Italia resti monetariamente saldata alla Germania evitando di mettere in discussione la coesione geopolitica europea? Credo non moltissimo. Senza contare il fatto che i maggiori economisti anglosassoni hanno chiaramente detto quanto vediamo: ovvero che l’aggancio monetario avrebbe compromesso la coesione politica (e le loro teorie oggi sono state riportate all'attenzione dei decisori politici).

Certo, può durare ancora molto. Ne parlavo prima con Martinetus, esternandogli questa analisi che volevo condividere con voi. Ma non per sempre. Non è solo Germania contro PIGS. È, anche se si vede di meno, USA contro BRIC. Se volete dirmi che la razionalità nelle scelte umane non sempre prevale ecc. sono d’accordo. Ma voi sarete d’accordo con me che dal punto di vista degli Stati Uniti, nel bene e nel male, sarebbe molto più razionale cercare di smantellare in modo ordinato l’euro.

Un argomento che, fra l’altro, sviluppa Stefan Kawalec in questo working paper. Voi lasciate stare che noi non vogliamo il TTIP (Stefan sì, è liberista). L’argomento di Stefan però è che euro e TTIP sono in contraddizione. Se l’argomento fosse fondato (potete valutarlo) si aprirebbe una linea di faglia che potrebbe modificare il panorama. Non necessariamente in meglio (Quarantotto ci ammonisce). Ma modificarlo.

Forse, anziché rivolgersi alla Germania con un accorato “Franti, tu uccidi l’Europa!”, il Direttore USA farebbe meglio ad applicare a se stesso l’aurea massima “ubi commoda ibi et incommoda”, e a metter mano, nel suo interesse, alla rimozione di questo spiacevole errore di percorso nel cammino della Storia, un errore che solo la naïveté di chi proveniva da un paese senza storia poteva essere indotto a compiere.

Ah, e naturalmente: più Australia! (per tutti).