La
scuola
keynesiana nasce negli anni trenta nel contesto
della riflessione sulle cause della grande depressione.
Fino
ad allora era dominante l’idea che l’offerta dei beni creasse da
sé la propria domanda, tale idea era ed è conosciuta come “legge
di Say”, considerata valida soprattutto dai
liberisti della scuola
austriaca neoclassica (Von Mises, Von Hayek,
etc)
Keynes,
in aperta polemica con la teoria allora (e tuttora) dominante secondo
cui le cause della disoccupazione erano da individuarsi in un livello
eccessivamente alto del salario reale, ritenne che le cause della
depressione derivassero dalla carenza di domanda
aggregata.
«In
macroeconomia la domanda aggregata rappresenta la domanda di beni e
servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso, in un
certo periodo temporale; come tale essa rappresenta la potenzialità
di sfruttamento della capacità produttiva globale di un certo
sistema economico.» (Wikipedia)
Secondo
Keynes, l’economia si era avvolta in un circolo vizioso: la domanda
aggregata era bassa perché era basso il livello del reddito; il
reddito era basso perché i salari e l’occupazione erano bassi;
salari e occupazione erano bassi perché era basso il livello della
produzione; la produzione era bassa perché erano bassi i consumi
e la domanda in generale.
Keynes
propose, quindi, una soluzione che consisteva nell’interrompere tale
circolo vizioso attraverso interventi volti ad aumentare la domanda
aggregata, ad esempio aumentando la spesa pubblica o riducendo le
tasse, cioè facendo ciò che gli esperti chiamano “politiche
fiscali espansive”.
Keynes
sviluppò la critica attraverso il principio della domanda effettiva.
Secondo tale principio il livello di produzione (e quindi
dell’occupazione) dipende dal livello della domanda aggregata.
Non è
la domanda che si adegua all’offerta come sostenuto da Jean
Baptiste Say, bensì l’offerta che si adegua
alla domanda.
Secondo
Keynes, inoltre, la principale variabile da cui dipende il livello di
consumo (C) delle famiglie è il reddito corrente Y.
A
questo punto ripropongo uno schema di questo
fortunato post che schematizza il flusso del
reddito:
Caratterizzato
dalla seguente equazione che esprime il reddito di equilibrio
(trascurando per semplicità RNE):
Y = C + I + G + X - M
Con
una semplice trattazione
matematica Keynes approdò alla definizione di
una grandezza chiamata Moltiplicatore il quale esplicita il fatto che
un aumento con causa esogena della domanda aggregata produce un
aumento proporzionalmente maggiore nel reddito d’equilibrio.
Le
equazioni seguenti tengono conto di alcune semplificazioni come
l’ipotesi di trascurare il tasso reale di interesse e le sue
variazioni assumendo che esso sia uguale a 1, e di trascurare il
coefficiente di proporzionalità tra investimenti (I) e reddito (Y),
una funzione crescente, che consideriamo inglobato nella propensione
marginale al consumo.
Dove:
c
è la propensione marginale al consumo data dal rapporto tra la
variazione dei consumi e la variazione del reddito disponibile
∆C/∆Yd.
t
è l’aliquota fiscale fissa, nella semplificazione che essa non
viene modificata al variare del reddito nazionale, in altre parole si
ipotizza un’imposta proporzionale e progressiva sul reddito che
rimane fissa sia se l’economia è in recessione sia che è in
espansione (es: flat tax).
m
è la propensione marginale all’importazione data dal rapporto tra
la variazione delle importazioni e la variazione del reddito
complessivo ∆M/∆Y. In altre parole è la frazione di ogni unità
addizionale di reddito che gli individui desiderano spendere per
acquistare beni e servizi stranieri.
Le
importazioni M sono una funzione del reddito nazionale (sono quindi
una componente endogena), dei beni di consumo prodotti all’estero,
e dei materiali utilizzati nella produzione dei beni fabbricati sul
territorio nazionale, esse aumentano al crescere del reddito.
Siccome
a noi interessa conoscere la prospettiva di variazione del reddito
(PIL) di equilibrio in virtù dell’effetto del moltiplicatore,
riscriviamo la formula tenendo conto delle variazioni:
(nota
bene: il termine M relativo alle importazioni non compare più ma il
suo effetto viene comunque tenuto in conto, correttamente, dal
termine m a denominatore del moltiplicatore).
Facciamo
ora una piccola analisi qualitativa della variazione del reddito
nazionale (PIL) in funzione del moltiplicatore:
- Il PIL tende a variare tanto più positivamente quanto cresce la propensione marginale al consumo, con un’aliquota fiscale bassa e una propensione marginale all’importazione bassa.
- Al contrario Il PIL tende a variare tanto più negativamente quanto decresce la propensione marginale al consumo, con un’aliquota fiscale alta e una propensione marginale all’importazione alta.
- La crescita della propensione marginale all’importazione riduce gli effetti del moltiplicatore a testimonianza che in una economia aperta (con import-export) esso è più basso rispetto a una economia chiusa (senza import-export).
E’
evidente che uno Stato può fare scelte di politica economica che
possono variare tali grandezze in maniera diversa, per esempio a
fronte di un riuscito rilancio dei consumi e, quindi, di una maggiore
propensione marginale al consumo, il suo effetto benefico sul PIL può
essere smorzato direttamente con un’imposizione fiscale maggiore o,
indirettamente, con un aumento delle importazioni (soldi che se ne
vanno fuori confine poiché una parte dell’incremento della domanda
si rivolge all’estero traducendosi in un incremento delle
importazioni).
Ora,
da buoni praticoni, abbiamo uno strumento semplice tra le nostre mani
che ci permette di fare nel nostro piccolo delle previsioni
sull’evoluzione del PIL nel medio-breve periodo.
Precisiamo
che calcolare il moltiplicatore è cosa difficile e impervia, pochi
ci si avventurano, cosa certa è che esiste, nonostante i
monetaristi…......
La
difficoltà principale risiede nel fatto che tentiamo di calcolare
un’entità dinamica con una relazione statica cioè, detto in altre
parole, una possibile espansione di spesa pubblica G porta come
conseguenza una variazione di C, I, X e M, cambiando inoltre, anche
se in piccola parte, le propensioni marginali a moltiplicatore.
Insomma, un cambiamento esogeno che porta in sé, nell’arco di un
tempo ristretto, altri cambiamenti endogeni.
Ma noi
siamo temerari e con semplici riflessioni proviamo a capire oggi
quanto possa valere il moltiplicatore.
Empiricamente
in Italia il valore della propensione marginale al consumo risulta
oscillare negli anni tra 0,6 e 1,4. Con una propensione al risparmio
attuale sotto al 10% (era al 26% ai tempi della £…sigh..) è
ragionevole pensare a un suo valore pari a 0,9 (90% del reddito
speso).
Assumiamo
l’aliquota fiscale media per persone fisiche e imprese di circa il
45% del reddito (44,4% nel 2012).
La
propensione marginale all’importazione
si ipotizza a un valore prossimo allo 0,2, la frazione di 200€ ogni
1000€ addizionali di reddito che gli individui desiderano spendere
per acquistare beni e servizi stranieri sembra essere ragionevole.
Pensiamo a beni desiderati direttamente tipo i beni reali come le
automobili o generi alimentari o attrezzature meccaniche, o beni
“superflui” (sempre più rari) come le vacanze all’estero
(equivalenti alle importazioni), o indirettamente come i beni
strumentali come l’energia (da rete di fornitura, idrocarburi,
etc.).
Risultato,
abbiamo un moltiplicatore pari a 1,42 praticamente coincidente con il
1,4 di Sapir
e non distante dal 1,5 ipotizzato a più riprese da Orizzonte48 qui
e qui.
Ora,
per innescare il meccanismo del moltiplicatore è evidente, guardando
la formula, che bisognerebbe generare a livello di politica
economica delle variazioni positive per qualcuna delle variabili
presenti tra le parentesi del secondo termine.
La
leva migliore che uno Stato ha è quella fiscale e cioè quella che
permette di incrementare la spesa pubblica G e o ridurre, ove
possibile, le tasse T generando così ripercussioni positive per un
maggior reddito disponibile, maggiori risparmi e consumi, maggiori
investimenti e, conseguentemente, maggiore occupazione.
È doveroso precisare che il
moltiplicatore di una variazione positiva di spesa pubblica ∆G è
maggiore di quello di una variazione negativa di tasse ∆T della
stessa entità. In altre parole il moltiplicatore della spesa
pubblica è sempre maggiore di una unità rispetto al moltiplicatore
delle entrate per tassazione, nel caso particolare di ∆G=∆T cioè
l'immissione di denaro è uguale al prelievo fiscale, la variazione
del PIL ∆Y è positiva ed uguale a ∆G (Teorema
di Haavelmo o del moltiplicatore in pareggio di
bilancio).
Eventuali
conseguenze con ripercussioni negative potrebbero manifestarsi con un
aumento delle importazioni, dovute al maggiore reddito disponibile,
che sbilancerebbe il saldo estero attenuando l’effetto del
moltiplicatore.
Per
limitare il presunto eccessivo incremento del reddito con conseguente
rialzo del livello generale dei prezzi (inflazione) si potrebbe
pensare a un variazione positiva dell’aliquota fiscale (alzare le
tasse) al fine di beneficiare del trend positivo senza sforare in
disequilibri.
Ma
questo mondo “magico”, a noi italiani, sembra non appartenere
più.
La
politica economica ci viene dettata dalla UE sotto l’egida tedesca
che ha tutto l’interesse ad affossare il principale antagonista
manifatturiero europeo. I collaborazionisti del partito unico
eseguono senza nascondersi più dietro la cosmesi, spogliando sempre
più ogni giorno la democrazia violentandone la Costituzione.
La
linea direttrice dei governi Monti-Letta-Renzi è sempre la stessa,
soddisfare la volontà dei creditori teutonici.
Monti
distrusse la domanda interna per ridurre il valore delle
importazioni, riequilibrando il saldo estero ma comprimendo il
mercato del lavoro e ottenendo lo splendido risultato di un aumento
della disoccupazione e di circa dieci punti del rapporto debito/PIL.
La ciliegina fu l'inserimento del pareggio di bilancio in
Costituzione e l'adesione al “fondo salva-Stati”.
Letta
consolidò le politiche di Monti ma fu considerato troppo morbido
dalle élite europee che pilotarono il passaggio di consegne a Renzi
che oggi sta facendo di tutto per demolire definitivamente i diritti
fondamentali della Costituzione (welfare, voto, bicameralismo) ma
nulla può e vuole fare per risolvere i problemi macroeconomici.
Prendo
a prestito l'analisi di Orizzonte48:
“Nessuno
può aspirare rimanendo nella moneta unica, a correggere i tassi di
cambio reale senza aver ridotto l'importazione e quindi i consumi e
la domanda interna. Nessuno. A pena di finire nel tritacarne, a
potenziale ricorrente, dell'attacco al debito sovrano ed alla
crescente erosione fiscale dell'onere degli interessi da
corrispondere comunque a investitori in parte stranieri (aggravando
ulteriormente la posizione netta sull'estero).
La
correzione interna operata per non ri-espandere le importazioni
implica inevitabilmente la contrazione prolungata dei consumi che
sarà addirittura accentuata da misure come la riforma del mercato
del lavoro (flessibilità in uscita) in fiscalità con "pareggio
di bilancio" (quindi senza prospettive di nuovi investimenti e
occupazione), che ad altro non mira che alla deflazione salariale
reale e, in verità, anche nominale. Cioè ad una riduzione del
reddito disponibile e quindi dei consumi e dell'intera domanda
interna.
Ed
infatti: la domanda pubblica 2014, dandosi concordemente atto di una
correzione negativa dello 0,6 (peraltro reputata insufficiente dalla
stessa Commissione e da Olli Rehn) inciderà sulla domanda-PIL per
0,9 punti, applicando un moltiplicatore fiscale (1,5) persino
prudenziale, che la Commissione continua a ignorare.
Inoltre,
la questione del cuneo fiscale, sempre dal punto di vista del
moltiplicatore fiscale, non può per definizione apportare il
beneficio ipotizzato sul reddito disponibile e quindi sul rilancio
della domanda interna, esso verrebbe realizzato con equivalenti tagli
della spesa pubblica, se non addirittura con imposizione
patrimoniale straordinaria.
Rispetto
ai tagli, lo sgravio contributivo, infatti, agisce incrementando la
domanda esattamente in misura della metà della contrazione provocata
dai tagli stessi. Come ha confermato lo stesso FMI (quando la
recessione non era ancora a questi livelli di durata).
Quindi
una fiscalizzazione degli oneri sociali "in pareggio di
bilancio", (aggiuntiva), per 10 miliardi porta ad una
contrazione del PIL esattamente equivalente: cioè a un -0,6, almeno.
Se
accoppiamo questo -0,6 al -0,9 determinato dalla ultima manovra di
stabilità ne avremmo un -1,5 di PIL. Sempre che si voglia finalmente
prendere atto dell'esistenza del moltiplicatore fiscale,
naturalmente.
Per
compensare questa misura di domanda negativa occorrerebbe, almeno per
non essere ancora in recessione, un attivo del CAB (saldo estero)
almeno pari.
Ma
abbiamo visto che la fiammata mercantilistica italiana sarebbe giunta
al capolinea: e i rimedi offerti non paiono minimamente "idonei".
Altro che rilancio della domanda interna, occorrerebbe altra
deflazione salariale e probabilmente è questo che si vuole ottenere,
agendo nominalmente sullo sgravio contributivo, ma su un numero di
occupati in ulteriore diminuzione.
Solo
che come già ipotizzava (coi suoi plurimi elementi "ipotetici")
Bankitalia, l'attivo CAB dovrebbe quest'anno passare dallo 0,9 allo
0,2: ciò anche in considerazione del fatto che non solo la domanda
estera dei BRICS è in calo essendo impegnati anche loro in una
difficile, se non drammatica, correzione dei conti con l'estero
contraendo la domanda.
...…..Il
moltiplicatore non ci lascia scampo.
Anche
nella presunta ibridazione tra mercantilismo e rilancio presunto
della domanda interna - una specie di terza via tra PIGS e Germania
che noi, al pari della Francia, non siamo realisticamente in grado di
seguire, nel paradigma €uropeo attualmente incontestabile, la
recessione derivante dalla linea dei "compiti a casa spontanei e
per i nostri figli" dovrebbe finire a 1,3 punti.
Il
che renderebbe drammatico e insostenibile l'aggiustamento a quel
punto necessario per applicare il fiscal compact con la manovra di
fine anno per il 2015.
E
attenzione: non ho scontato gli effetti della propensione marginale
al consumo della imposizione patrimoniale, straordinaria o a regime,
che si vuole inasprire comunque.
In
quel caso, a seconda del volume dall'inasprimento, le conseguenze sui
consumi (ma anche sugli investimenti: col risparmio divenuto negativo
e agli attuali costi del credito?) sarebbero ancora più negative.”
Renzi per mesi ha dichiarato che non ci sarebbero state manovre correttive aggiuntive, ora nicchia, tentenna..........erano bugie.
Il PIL
2013 è stato di circa 1560 miliardi di €, una variazione
(ottimistica) negativa di PIL del 1,5% genera un ammanco di circa 23
miliardi di €.
Stringiamo
le chiappe al cuore, in autunno la manovra ci sarà e sarà di circa
25 miliardi di € di ulteriori tagli e o di imposizione patrimoniale
straordinaria e o di prelievo forzoso dai conti correnti bancari.......
Verso una povertà dilagante.
Che
Dio fulmini le élite UE, l'€, Renzi il collaborazionista, i suoi mandanti e
la sua corte.
ADDENDUM del 13/08/2014
Guardate un po' che voci trapelano da qualche giorno........voi che avevate letto questo post, lo sapevate già, e se non ci avevate creduto, fatti vostri............il metodo analitico, nella sua disarmante semplicità, si è comunque rivelato ottimo!
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