lunedì 22 gennaio 2018

Orizzonte48: PUNTO-NAVE E ROTTA EFFETTIVA: IL MISTERO DI PULCINELLA DELLA DOPPIA VERITA' (NAKED VOTE)

Alle porte dell'elezioni del prossimo 4 marzo, Orizzonte48 fa' il punto della situazione delle reali scelte di politica economica fatte in Italia nell'ultimo secolo al fine di individuare, come fanno i marinai sulle carte nautiche, la vera rotta intrapresa. Futuro sempre più fosco e grigio per le masse lavoratrici...



1. Nell'approssimarsi di queste elezioni, forse decisive o, più probabilmente, momento estremo di una (finora) successful strategia conservativa, facciamo il punto-nave della società italiana, intesa come Stato-comunità, che si muove sulla traiettoria impressa dalle intenzioni della classe dirigente, sempre meno nazionale, che detiene il potere effettivo di governo.
Per definire tale punto-nave occorrono alcuni "punti di posizione", correlati a dei "punti cospicui", la cui esatta stima combinata ci fornisce la rotta effettiva (diversa, in quanto corretta in funzione della traiettoria effettivamente percorsa, rispetto alla rotta teorica, inizialmente dichiarata, e tanto più diversa in quanto la navigazione venga intrapresa trascurando, con negligenza o intenzionalmente, una serie di forze che influiscono fisicamente sul moto o sugli strumenti di sua rilevazione).

2. Appare possibile compiere un'operazione analogica di questo tipo rispetto ad un'intera società nazionale, nel cui interesse esclusivo dovrebbero agire i titolari delle istituzioni, secondo un solenne impegno previsto dalla Costituzione, all'art.54; una Nazione che, a tutt'oggi, risulterebbe ancora "entificata" in quella che un tempo poteva essere chiamata, (senza subire accuse di collettivismo - nazionalismo guerrafondaio - protezionismo- anti€uropeismo e via dicendo), Repubblica democratica fondata sul lavoro.
E spero di non avere dato luogo a notizie scioccanti qualificabili come fakenews.

3. Per definire il punto-nave, quindi abbiamo punti-cospicui e punti di posizione in abbondanza, costituiti da fatti storici noti e univocamente riscontrabili e da interpretazioni e precetti programmatici che li giustificano e li preparano in modo dichiarato.
Sappiamo, ad esempio, che il principale di questi "punti" consiste nell'intenzione restaurativa dell'ordine internazionale del mercato, perseguita attraverso una serie di trattati caratterizzati dal perseguimento dell'interesse economico, privato, del numero ristretto di individui "cosmopoliti" che sono titolari della proprietà e dei poteri gestionali che definiscono, momento per momento, il fenomeno sociologico, transnazionale, denominato "mercato",come ci insegna Galbraith, e che, appunto, tali trattati intendono massimizzare. 
Il più immediatamente vincolante è il trattato istitutivo dell'unione economica e monetaria europea, che, a sua volta, è dichiaratamente volto (nelle dichiarazioni dei suoi sostenitori) araccogliere la sfida della globalizzazione, anch'essa rigorosamente istituzionalizzata in un insieme coordinato di trattati e di soft law dettato da organizzazioni internazionali.

4. E perché lo sappiamo?
Perché lo affermano solennemente i suoi stessi promotori, all'interno di norme fondamentali e di analisi teoriche comunque interpretative di principi informatori di tali trattati e organizzazioni internazionali.
L'idea-guida, cioè l'obiettivo politico assunto a livello sovranazionale dalle elites cosmpolite che predeterminano, prima ancora dell'azione formale dei negoziatori investiti dai singoli Stati  (operanti quindi, in una fase attuativa che già si colloca "a valle" della predeterminazione di tale obiettivo), è la restaurazione dell'ordine internazionale del mercato, quale definita da Karl Polany (qui, p.4). 
Una restaurazione che, proprio in quanto tale, trova il suo modello istituzionale di riferimento nella "codificazione" compiuta nelle due famose Conferenze di Bruxelles (1920) e Genova(1922).
(Per inciso: i links sono indispensabili per coloro che, non hanno avuto modo di seguire le precedenti analisi).

5. L'ordine internazionale del mercato si incentra su tre "istituzioni" (qui, p.1.2.), intese come fatti normativi, come regole, che caratterizzano sopra ogni altra l'organizzazione strutturale del potere decisionale e gli obiettivi di quest'ultimo (la c.d. governance), nonchè gli strumenti stabili di loro perseguimento:

a) il gold standard o una moneta che, nei suoi effetti socio-politici conformativi, gli equivalga(funzionalità isomorfa), accompagnandosi al suo postulato-corollario della banca centrale indipendente dagli organi rappresentativi dell'indirizzo elettorale democratico, cioè "al riparo dal processo elettorale". Uno strumento istituzionale che, come illustrano Carli e Eichengreen nel post appena linkato, tende irresistibilmente a gerarchizzare la società che l'adotta in un'oligarchia timocratica dominante e in una massa, subalterna, di lavoratori-merce;

a) il free-trade, inteso come apertura normativizzata delle economie al fine di assoggettarle incondizionatamente al principio dei vantaggi comparati (qui, p.2), e quindi ai suoi effetti gerarchizzanti e verticistici rispetto alla pluralità delle comunità nazionali degli Stati coinvolti. Un paradigma pretesamente pacifista (che in realtà non lo è mai stato, né politicamente né militarmente, cfr; pp.7-8), in contrapposizione concettualmente arbitraria al "protezionismo" che, in chiave storico-economico, è un concetto unificabile solo arbitrariamente, in quanto riassuntivo di condizioni politiche e finalità di sviluppo industriale molto diverse tra loro;

c) la flessibilità del mercato del lavoro che, intrecciandosi con le due precedenti "istituzioni" in una situazione di economie istituzionalmente aperte, risulta anch'esso produttiva di gerarchizzazione sia sociale (cioè tra classi sociali interne ad una stessa comunità nazionale) che internazionale (cioè tra Stati, che come possono imporre la propria scelta delle produzioni a più alto valore aggiunto in base ai "vantaggi comparati", così possono anche scegliere di impiegare la manodopera più qualificata, resa flessibile e mobile, attingendola all'interno dell'intera area plurinazionale di libero scambio indipendentemente dalla sua provenienza da un altro Stato-ordinamento in cui tale manodopera si sia formata).

6. E la democrazia, diranno alcuni, in tutto ciò? E la promozione della redistribuzione della ricchezza prodotta e la connessa mobilità sociale?
Non sono in agenda: la rotta effettiva sconta tali fenomeni tatticamente, quanto al punto di partenza, promettendosi aumento del benessere economico e della qualità di vita, e proponendo così un modello di proiezione identificativa delle masse negli interessi delle elites, ma la destinazione è tutt'altra (la censura su questo "punto zero" della rotta e il conseguente "paradosso €uropeo", a onor del vero, pur tra mille difficoltà iniziano ad essere pericolosamente chiari alle masse dei "perdenti della globalizzazione"). 

7. La promessa, liberoscambista e globalizzatrice, di maggior benessere è una nota prospettiva immaginaria (mai verificatasi nella Storia economica, abbiamo visto), mentre il suo fine, la meta d'approdo, è, appunto, quella della restaurazione dell'ordine internazionale del mercato, cioè, per il tramite delle sue istituzioni gerarchizzanti, il dominio di un'elite timocratica. 
Si conferma dunque che l'operazione restauratrice, com'è in fondo evidente sapendo che il suo paradigma è stato codificato (pur tra alterne fortune, tra cui si annovera, se non altro, la crisi del 1929), nel 1920-1922, è pura riproposizione della democrazia liberale, - quella cheGramsci definisce come caratterizzata da una legalità formale che dissimula il dominio ferreo, sul processo elettorale, del capitalismo sfrenato

8. La sua efficacia politica non può dunque avere altro fondamento che l'uso sistematico, e abilmente dissimulato, mediante il notorio controllo culturale, accademico e mediatico, della dottrina della doppia verità, che tra Schmitt, Hayek e paradosso europeista, si compendia anche, e non secondariamente, in una tecnica normativa:
"In effetti, la partecipazione al colpo di stato cileno del 1973 da parte di numerosi membri e affiliati alla Mont Pèlerin Society, di cui von Hayek fu uno dei fondatori, è una delle manifestazioni più note della dottrina neoliberista della doppia verità, secondo la quale ad una élite si insegna la necessità di reprimere la democrazia (concetto proveniente da Carl Schmitt, da von Hayek stesso definito “il giurista della Corona” di Hitler), mentre alle masse si racconta di “smantellare lo stato-balia” ed essere “liberi di scegliere”.  Come spiega Mirowski (p. 445):
Milton Friedman impiega buona parte della propria autobiografia a tentare di giustificare e spiegare le sue azioni; in seguito, anche Hayek fu pesantemente criticato per il suo ruolo.  “Fu soltanto una sfortunata serie di eventi eccezionali”, dissero, “non era colpa nostra”.  Ma Carl Schmitt ha sostenuto che la sovranità è definita come la capacità di determinare le eccezioni alla legge: “Sovrano è chi decide lo stato di emergenza”.  Il dispiegamento della dottrina della doppia verità in Cile ha mostrato che i neoliberisti si erano arrogati la sovranità per loro stessi".
b) la tecnica redazionale dei trattati, la cui riduzione al significato precettivo effettivo è resa intenzionalmente impenetrabile ai destinatari (cioè i trattati sono scritti in modo illeggibile, cioè tale da risultare incomprensibili, come ci ha spiegato Amato, insieme a tanti altri, in una famosa intervista del 12 luglio 2007):
D'altronde, l'adattabilità del liberismo economico in funzione del contestogeostorico ha dimostrato, anche nella storia contemporanea, di usare strumentalmente lo Stato come Leviatano, funzionalmente alla libertà del capitale e al contestuale asservimento del lavoro: dal neoliberismo imposto con la violenza nel Cile di Pinochetall'ordoliberismo che, insieme alla retorica dell'irenismo kantiano del federalismo, è stato progettato per servirsi di un autoritario Stato burocratizzato volto all'instaurazione di un mercato libero da finalità sociali.[7]


Dato il disgusto morale (o, forse, “estetico”) per le sovrastrutture ideologiche promosse dal nazifascismo, pare che a Friburgo l'élite abbia studiato una soluzione diversa e più correct; ma i fini sono strutturalmente i medesimi: la liberalizzazione dei capitali con ogni mezzo e l'asservimento dei lavoratori.


Le proposizioni nell'ordoliberismo sono usate come fossero complementari – ad es. “libero mercato” e “giustizia sociale”, “stabilità monetaria” e “piena occupazione”[8] – mentre, per motivi strutturali, qualsiasi sovrastruttura giuridica non potrà obbligare gli organi di governo ad eseguire entrambi gli obiettivi, essendo per motivi “tecnici” mutuamente esclusivi. Poiché il capitale è naturalmente più forte del lavoro, la spoliticizzazione del governo delle comunità sociali permette di relativizzare l'ordine giuridico in funzione degli interessi del capitale del Paese dominante.

giovedì 18 gennaio 2018

L'ingerenza di Moscovici...altro che quella moscovita


Le dichiarazioni del commissario Moscovici allarmato dal "rischio politico" per eventuali esiti delle elezioni politiche italiane del prossimo marzo.
Qualche giorno fa era stata inventata l'ingerenza moscovita da un esponente (Ben Cardin) del partito democratico USA...
Quella di Moscovici è l'ennesima ingerenza che pochi hanno capito e criticato, ancora una volta nemmeno un giornalista, un giornale, un giornalino.

La risposta di Alberto Bagnai:





venerdì 12 gennaio 2018

Mattè 'o schiattapalle e Giggino 'o libberista

Poesia elettorale liberamente ispirata a “Marzo” di Salvatore Di Giacomo

4 marzo: nu poco chiove
e n'ato ppoco stracqua
torna a chiòvere, schiove;
ride 'o sole cu ll'acqua.

Mo nu cielo celeste,
mo n'aria cupa e nera,
mo d' 'o vierno 'e 'tempeste,
mo n'aria 'e Primmavera.

N'auciello freddigliuso
aspetta ch'esce o sole,
ncopp' 'o tterreno nfuso
suspirano 'e viole...

Mattè, che vuò cchiù?
Ntienneme, core mio,
Marzo, tu 'o ssaje, si' tu,
e st'auciello song' io.


Giggino tuo



PS: eh si, quando molto probabilmente M5S e PD si alleeranno, che diranno i grillettini?

domenica 7 gennaio 2018

L’inefficienza di una banca centrale indipendente

da asimmetrie.org (link aggiunti da Menti Avide):

Le politiche di stimolo della domanda del secondo dopoguerra avevano portato a una crescita senza precedenti nel mondo occidentale, a una forte riduzione delle disuguaglianze, e a un aumento importante degli scambi commerciali. La crisi petrolifera dei primi anni settanta segnò un punto di svolta: a uno shock dal lato dell’offerta (impennata del prezzo delle materie prime) si rispose con un ulteriore stimolo della domanda, del resto si era “tutti keynesiani” in quel periodo. L’ovvia conseguenza fu una pressione sul livello dei prezzi; l’alta inflazione generalizzata fu l’occasione propizia per la contro-rivoluzione neo-liberista, che anziché correggere l’errore di politica macroeconomica commesso in quel frangente, promosse un rovesciamento radicale del sistema di governo dell’economia.

Al pragmatismo economico del secondo dopo guerra si sostituì l’ortodossia monetarista. Le politiche di stimolo della domanda dovevano essere bandite, indipendentemente dal contesto congiunturale. La politica di bilancio dei governi doveva essere disciplinata dal mercato, spezzando il coordinamento con la politica monetaria; ancora meglio se quest’ultima fosse stata ulteriormente limitata dal vincolo esterno di un’unione monetaria. L’inflazione, tradizionale spauracchio del capitale, venne invece presentata come il peggior nemico del lavoratore, del piccolo imprenditore, del pensionato.

Il caposaldo di questo nuovo approccio divenne l’indipendenza della banca centrale: la condotta autonoma della politica monetaria, assolutamente avulsa dalla politica e dal processo elettorale (cioè dal controllo democratico), poteva finalmente limitare la condotta della politica di bilancio del governo, che quindi doveva da allora in poi sottostare alla disciplina dei mercati privati per farsi finanziare. Le nuove banche centrali indipendenti assunsero come mandato la stabilità dei prezzi, cioè la riduzione dell’inflazione, a scapito della piena occupazione.

Il dogma dell’indipendenza della banca centrale venne accettato in Italia senza mai essere davvero discusso, fu presentato come una ineluttabile necessità alla quale molti, con grande zelo, credettero, e pochi, tacciati un po’ di arretratezza e un po’ di disonestà, no. Negli anni settanta il PCI sposò immediatamente la dottrina dell’indipendenza della banca centrale, come strumento per disciplinare la condotta della politica fiscale dei governi e perseguire con maggior forza la lotta all’inflazione. Sarà un compito interessante per gli storici cercare di capire se i dirigenti comunisti fossero consapevoli del fatto che così facendo stavano sposando in pieno i due cardini del pensiero neo-liberista, che in quegli anni si diffondeva negli Stati Uniti e che poi avrebbe portato al Washington Consensus.

Nel mondo anglosassone, culla del capitalismo, tale dogma fu almeno discusso prima di essere accettato, evidenziando i rischi a cui ci si esponeva. Il risultato fu che la separazione fra politica monetaria e di bilancio, fra banche centrali e governi, divenne più radicale nei paesi europei che in quelli anglosassoni. In Europa continentale si adottò il modello della Bundesbank tedesca, anzi si scelse di legare a questa le altre banche centrali, prima in un accordo di cambi fissi (lo SME) e poi nell’unione monetaria.

L’unione monetaria europea nacque all’interno del sistema più restrittivo e conservatore mai realizzato, disegnato a Maastricht, in cui alla politica monetaria rimaneva come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, mentre nei paesi anglosassoni continuava a esserci anche quello della piena occupazione e della crescita. Alla nuova banca centrale comune veniva fatto esplicito divieto di cooperare e supportare la politica di bilancio dei governi, indipendentemente dal contesto macroeconomico, garantendo tale divieto con norme di livello costituzionale.

La rigidità e l’inadeguatezza di questo sistema si è rivelata in tutta la sua drammaticità a seguito della recente crisi finanziaria: in tutto il mondo ha prevalso il pragmatismo e il dogma dell’indipendenza della banca centrale è stato di fatto archiviato, la cooperazione fra autorità monetarie e di bilancio ha permesso di superare la crisi; nella zona euro invece la netta separazione fra politica monetaria e politiche di bilancio ha impedito una risposta coerente ed efficace.

Le politiche restrittive adottate fra il 2010 e 2012, periodo in cui invece sarebbero servite politiche espansive, hanno provocato una seconda e più lunga recessione mentre il resto del mondo riprendeva il suo cammino di crescita. Solo quando la tensione sociale ed economica è divenuta tale da mettere a rischio il progetto politico dell’euro, la politica monetaria ha iniziato a stimolare l’economia prima con l’abbassamento dei tassi d’interesse, poi fornendo un trilione di liquidità alle banche private, e in fine immettendo due trilioni di liquidità comprando titoli di stato.

Le politiche di bilancio però hanno continuato a remare contro, adottando una posizione restrittiva, sottraendo risorse all’economia. I governi sono stati costretti a ridurre il deficit in un periodo in cui il moltiplicatore della spesa pubblica era invece positivo: in altre parole, spendendo un euro lo Stato ne avrebbe generato più di uno, spesso due, con conseguente aumento delle entrate, e quindi anche una riduzione del rapporto debito/PIL a medio termine. Tale politica di bilancio restrittiva ha annullato alcuni dei benefici potenziali della politica monetaria espansiva.

Come se ciò non bastasse, la terza gamba delle politiche macroeconomiche, la politica strutturale o dei redditi, ha realizzato negli stessi anni la più profonda e prolungata compressione dei redditi, quindi della domanda aggregata, mai realizzata dal dopoguerra: la serie più lunga di riforme strutturali del mercato del lavoro ha lasciato il potere d’acquisto dei lavoratori in uno stato languente, riducendo ulteriormente l’efficacia dell’espansione monetaria.

Due anni fa Mario Draghi si è accorto che la politica di bilancio restrittiva dei governi che cercavano di ridurre la spesa pubblica contrastava la sua politica monetaria espansiva. Oggi lo stesso presidente della BCE si accorge che anche una politica dei redditi che comprime i salari, cioè le riforme strutturali che hanno distrutto il potere d’acquisto dei lavoratori, ostacola la condotta della sua politica monetaria, che per altro più espansiva di così non potrebbe essere.

Non a caso, le proposte (o le illusioni) sul futuro della zona euro si centrano sull’urgenza di creare un bilancio della zona euro che possa agire di concerto con la BCE e sul bisogno di coordinare le politiche strutturali, fra di loro e con le altre politiche macroeconomiche. Il sistema macroeconomico europeo costruito sulla base del dogma dell’indipendenza della banca centrale mostra tutte le sue crepe, si sta cercando di correggerlo in tutti i modi prima che crolli a pezzi, ma non si ha il coraggio di denunciare esplicitamente l’origine del problema.

È interessante notare come la ragione principale per creare un bilancio della zona euro sia avere un Tesoro europeo che possa agire di concerto con la BCE, in pratica quello che l’adozione dell’euro ha reso impossibile nei singoli stati e che tutto il resto del mondo invece continua a fare. Chi oggi sostiene l’urgenza di un bilancio della zona euro ammette implicitamente che togliere ai governi il potere di gestire e stabilizzare l’economia è stato un errore.

Il “divorzio” fra politica monetaria condotta da una banca centrale indipendente e politiche di bilancio e strutturali condotte dai governi, un tempo presentato come dogma ineluttabile per il progresso economico, oggi si rivela oltre che profondamente antidemocratico, anche molto inefficiente e costoso. Gli stessi che sostennero la necessità di quel “divorzio” oggi chiedono urgentemente nuove istituzioni europee per ricostruire il “matrimonio” fra le politiche macroeconomiche.

Se non fosse anche tragico, sarebbe piuttosto comico.

Agenor

venerdì 5 gennaio 2018

Orizzonte48: A COSA POTREBBERO SERVIRE QUESTE ELEZIONI? DUE CONSTATAZIONI OBBLIGATE

Da Orizzonte48, analisi condivisibile sull'utilità del voto del prossimo 4 marzo in relazione al  crescente astensionismo, fenomeno spesso attribuito a mutazioni di interessi delle masse ma che da una più attenta analisi risulta essere un effetto socio-politico voluto e causato dall'élite detentrici del potere finanziario...Buona lettura.

1. Insomma, proseguendo nel discorso più che mai attualizzato dalla fissazione delle elezioni per il prossimo 4 marzo, la domanda è: a cosa potrebbero servire queste elezioni?
Abbiamo visto (in molte occasioni, come tema ricorrente, e da ultimo qui) come la risposta più immediata dipenda in definitiva dalla forma di Stato in cui si svolga il processo elettorale: democrazia "liberale" (o formale) o democrazia sociale (o sostanziale). Nella prima, in termini molto pratici, l'indirizzo politico prescinde da qualsiasi preferenza espressa dalla volontà popolare (e, preliminarmente, ci si assicura, attraverso organizzazioni che agiscono sulla base di precisi obiettivi programmatici, che la stessa volontà sia comunque condizionata da un accurato sistema di controllo mediatico-culturale).

2. Questo dualismo, sulla cui irriducibilità a un substrato comune non ci dovrebbero più essere dubbi (nel senso che se ancora li si avesse, si sarebbe troppo lontani da una comprensione utile...per se stessi), ci impone di accertare preventivamente in quale dei due modelli alternativi, in questo momento storico, ci troviamo a partecipare alle elezioni.
A livello intuitivo, cioè di reazione quasi-istintiva e non determinata da capacità di valutazione che implichino complesse conoscenze storico-istituzionali e politico-economiche, il corpo elettorale italiano sta reagendo com'è naturale che sia in una democrazia formale/liberalecioè si astiene in percentuale crescente. 
Un fenomeno che abbiamo più volte analizzato, evidenziando come sia il risultato di un vero e proprio modello operativo, promosso dalle élites, e studiabile con una certa precisione.

3. E sappiamo pure come questo modello operativo sia stato perseguito attraverso la teoria del vincolo esterno, in modo da trasformare, per l'appunto, la democrazia sociale della nostra Costituzione in una democrazia liberale, introdotta tramite l'imposizione - mai pienamente vagliata nella sua legittimità -, della prevalenza delle regole giuridiche derivanti dai trattati europei; e tutto questo, secondo una mera prassi applicativa dei trattati che non è mai corrisposta ad alcuna previsione esplitica degli stessi e che, quindi, non è mai stata oggetto di ratifica e di approvazione da parte dei parlamenti e dei cittadini degli Stati che ne subiscono le conseguenze.
Questa complessiva situazione che segna la inutilità delle elezioni stesse, - almeno nelle intenzioni delle élites che hanno governato questa trasformazione del nostro ordine costituzionale, anche nei suoi principi immodificabili-, è perfettamente riassunta in questo tweet di Federico Fubini:
Delle promesse elettorali irrealistiche dei partiti, non preoccupa che le attuino sul serio (sono inattuabili). Ma che dopo il 4 marzo ai politici manchi la legittimazione per attuare misure meno popolari, ma serie, perché non hanno mai chiesto il voto su questo
— federico fubini (@federicofubini) 2 gennaio 2018

4. Dunque, il vincolo esterno, cioè i trattati, servono a trasporre la determinazione dell'indirizzo politico in una sfera che renda pressocché superflue le elezioni ed elimini le incertezze sui suoi contenuti che potrebbero derivare da una democrazia rappresentativa di interessi più compositi di quelli della timocrazia capitalista.
Si tratta in sostanza di una metodologia che assimila il blocco delle democrazie europee, coinvolte nella costruzione €uropea, alla democrazia federalistica e liberale degli USA:cioè, gli stessi USA che sono, i promotori del progetto. Sempre Fubini ci offre una forte traccia di questa aspirazione e della sua realizzazione anche sul piano sociale e demografico:
L’Europa dei nuovi emigranti (europei). La UE diventa un po’ più simile agli USA: i giovani cambiano Stato dell’Unione, si spostano dove c’è lavoro. E la Germania attira talenti costosamente istruiti nei Paesi meno ricchihttps://t.co/WM3TLBDNLB

— federico fubini (@federicofubini) 2 gennaio 2018

5. Rammentato questo quadro, per rispondere al quesito iniziale (a cosa potrebbero servire queste elezioni?), possiamo ragionevolmente fare affidamento sugli studi scientifici effettuati negli stessi USA per verificare l'effettiva titolarità del potere di indirizzo politico. Ricorriamo ad uno paper, fondato su un ampio e significativo campo di dati, citatoci da Arturo. Dello studio riporto l'intitolazione e l'abstract che vi traduco:  
·         Martin Gilens and Benjamin I. Page
·          
o    Published online: 18 September 2014
Abstract
Ciascuna delle quattro tradizioni teoriche nello studio della politica americana - che possono essere classificate come teorie della democrazia maggioritaria elettorale, della dominazione della élite economica, e di due tipologie di pluralismo dei gruppi di interesse- offre differenti previsioni su quale serie di attori abbiano la maggior influenza sulla public policyi cittadini normali (average citizens); le élites economiche; e i gruppi di interesse organizzati, aventi base di massa (mass-based) o funzionali al settore delle imprese (business-oriented).
Una gran mole di ricerche empiriche tratta dell'influenza di una o l'altra serie di attori, ma fino a tempi recenti non è stato possibile testare queste teorie previsionali contrastanti tra loro all'interno di un unico modello statistico. Lo studio si sforza di realizzare ciò, usando un unico complesso di dati che include la misurazione di variabili chiave per 1,779 interventi di politica normativa (policy issues).
L'analisi statistica multivariata indica che le élites economiche e i gruppi organizzati rappresentativi degli interessi del business hanno un sostanziale impatto indipendente sulla politica dello  U.S. government, mentre i cittadini medi e i gruppi di interessi mass-based hanno un'influenza indipendente scarsa o nulla.
I risultati forniscono un supporto sostanziale alle teorie della Dominazione della élite economica e a quelle del Pluralismo preorientato (Biased Pluralism), ma non per le teorie della Democrazia maggioritaria elettiva o per il Pluralismo maggioritario.
6. La trasponibilità analogica delle conclusioni di uno studio statistico è, ovviamente, un'ipotesi probabilistica: ma, per quanto riguarda un paese che sia impegnato in elezioni "politiche" come l'Italia, in quanto facente parte dell'unione economica e monetaria europea, le dinamiche osservabili, relative alla dominance della élite economica e dei gruppi organizzati degli "affari", sono persino istituzionalmente più rigide e prevedibili
Sia per quanto riguarda la prefissazione, "una volta per tutte" di ogni possibile obiettivo delle politiche economico-fiscali generali, parlandosi da parte delle stesse istituzioni UE di "pilota automatico" (v. qui, addendum iniziale), sia per quanto riguarda la sostanziale ininfluenza dei parlamenti nazionali, e di conseguenza dei governi che da questi ritraggono, molto in teoria, le linee programmatiche della "fiducia", nel determinare in modo "indipendente" tali obiettivi.
Basti al riguardo, da un lato, rammentare il discorso di Barroso sulla predeterminazione tecnico-efficiente di tale indirizzo, in base al naturale sviluppo applicativo dei trattati, predeterminazione esaltata come producentesi al di fuori di qualsiasi dialettica maggioranza-opposizione (il che è l'esplicita negazione in assunto della rilevanza del processo elettorale nei singoli Stati membri), e dall'altro, i "paletti" che, - con piena consapevolezza di questo svuotamento dei parlamenti nazionali e quindi delle elezioni che ne precedono la composizione-, ha posto la Corte costituzionale tedesca a qualsiasi obbligo derivante dai trattati nella ben nota Lissabon Urteil (qui, pp.2-3).

7. Un approfondimento di questi aspetti, d'altra parte, è rinvenibile nell'intera produzione di questo blog (a partire dalla natura fondamentale dei trattati economici che fondano le organizzazioni internazionali e passando per la logica delle condizionalità che da essi derivano irresistibilmente, qui, pp. 4-7).

Ora, la risposta concreta al quesito iniziale sta dunque in due aspetti, entrambi di pari evidenza, ma caratterizzati dalla loro non simultanea percepibilità al "cittadino medio", immerso nel paradosso della proiezione identificativa cui lo induce il sistema di controllo mediatico-culturale, che sta procedendo alla sempre più accelerata sterilizzazione della stessa funzione del suffragio universale nei singoli ordinamenti nazionali, in specie dei paesi appartenenti all'eurozona:
a) in sostanza, l'unica residua opzione di voto che assume il senso di una scelta effettiva (e non meramente apparente), verte sull'accettazione o meno della prevalenza dell'ordinamento sovranazionale dei trattati e, in particolare, delle regole derivanti dall'appartenenza all'eurozona;
b) il respingere questa prevalenza e queste regole ha senso solo se ci si pone il problema della vera funzione e finalità delle stesse: cioè, l'instaurazione di una democrazia liberale/formale che (ri)porti le politiche pubbliche sotto la Dominance delle élites economiche e dei gruppi organizzati degli "affari".

8. Con queste due constatazioni obbligate (in base a tutto quanto precede), è automaticamente definita sia la questione della residua utilità delle prossime elezioni, sia la questione, ancora più spinosa, della identificazione delle forze politiche per cui avrebbe un "senso" esprimere un voto: queste ultime saranno logicamente quelle che sono in grado di formulare e far coesistere nei loro programmi, con inequivocabile chiarezza, entrambi gli aspetti critici appena esposti.
Non uno solo di essi (ad es; euro-brutto perché svantaggia le nostre imprese, ovvero, finanza-brutta e capitalismo predatorio, ma senza connetterlo all'euro e alle sue regole).  
Può esprimersi questa sfumatura, non secondaria, del discorso, anche in questi termini: la stessa volontà politica di ripristinare la flessibilità dei cambi all'interno dell'occidente europeo è certamente indicativa di un obiettivo di ripristino di un certo livello della democrazia del lavoro; ma (come mostra d'altra parte la situazione del Regno Unito, come quella, sia pur eccezionalisticadal punto di vista monetario, degli Stati Uniti), ciò non implica automaticamente l'abbandono del mito delle politiche deflazionistiche-competitive sul solo lato dell'offerta (cioè dell'élite economica e dei suoi gruppi organizzati), e la tensione al monetarismo come proiezione attualizzata, e politicamente accettabile, dell'altra mitologia del gold standard.
Basti ricordare che uno strumento, qual è la moneta unica entro un trattato liberoscambista, per quanto efficiente, rimane pur sempre tale.

8.1. Se non si è consapevoli del tipo di democrazia che si vuole nel nostro Paese, le stesse forze che hanno imposto il vincolo esterno e che hanno da sempre congiurato per disattivare la Costituzione, potranno sempre trovare altri strumenti, adattandoli alle nuove condizioni di controllo del consenso che l'evoluzione geo-politica, soggetta a stress determinati dalla sua stessa rigidità ideologica, riterrà ancora praticabili. 
E li potranno trovare tanto più facilmente in quanto non sia attentamente rivisto l'impianto giuridico-istituzionale, ormai strutturato nelle sue alterazioni, che caratterizza l'ordinamento interno a seguito di decenni di applicazione del vincolo esterno: questa revisione precondiziona in modo essenziale lo stesso problema delle eventuale revisione dei trattati, e la realistica possibilità di un utile negoziato che ne riconduca le previsioni alla compatibilità con l'interesse nazionale.